Il coraggio, l’amicizia, la dedizione, l’autenticità, l’amore per la terra: la storia di Cantina Giardino ha questi punti cardine. Nel panorama frastagliato e spesso contraddittorio della viticoltura e dell’enologia campana non è cosa da poco. Scelta naturale, rispetto per il territorio, valorizzazione dei vitigni autoctoni e - nientedimeno - la pretesa dichiarata di voler fare cultura, cosa che chiunque realizza vini di territorio dovrebbe fare. Antonio Di Gruttola, insegnante ed enologo, non si è mai posto la questione, avendo sempre avuto chiara la funzione pedagogica della viticoltura e la dimensione di bene culturale del vino e della vite. Così nel 2003 è arrivato il progetto enoculturale di Cantina Giardino, che ha coinvolto un gruppo di amici tornati ad Ariano, nel cuore dell’Irpinia, dopo essere stati altrove per ragioni legate allo studio o al lavoro. Da subito l’impegno comune per la salvaguardia dell’autoctono - in questo caso parliamo di aglianico, coda di volpe, fiano e greco - è passato per la sottrazione di vecchie viti al rischio di espianto, a sostegno della biodiversità e dell’agricoltura di zona. Il panorama viticolo campano stava cambiando in seguito all’abbattimento di molti vigneti o al loro reimpianto; la tradizionale raggiera avellinese cominciava a essere rimpiazzata da impianti a spalliera.Era il momento della industriale, massiva e modaiola. Cantina Giardino ha deciso di rivolgersi a una serie di conferitori, tutti artigiani e contadini in possesso di vecchie vigne. La pratica sostenibile in vigna, va da sé, è garantita; in cantina, solo vinificazioni tradizionali (legno, ma anche terracotta) con lunghe macerazioni. Una filosofia e una pratica che danno vita a vini senza aggiunte, provenienti da uve sane, cresciute senza l’ausilio di prodotti di sintesi nel vigneto, prelevate esclusivamente in vigneti molto vecchi, dai 70 anni in poi per i rossi, e dai 40 anni per i bianchi. In una vigna vecchia ogni pianta è un individuo a sè con il proprio corredo genetico la memoria del tempo, la saggezza e che ha in qualche modo un’anima. Radici tortuose che grazie alla loro lunghezza hanno attraversato tutti gli strati di un terreno fino a toccare la roccia madre da cui hanno potuto prendere la mineralità poi riscontrata nei vini, a volte anche spigolosi ma sempre bevibili e digeribili.