“Panico, potente e luminoso, lascia intuire la maestosa sacralità della natura”. Era il 2003 quando Gino Veronelli raccontava così ai lettori di Carta il Barolo Paiagallo, prodotto in poco più di duemila bottiglie - e venduto a un prezzo che definire onesto sarebbe eufemistico - da un vignaiolo al tempo sconosciuto anche agli enofili più critici, Giovanni Canonica. Da allora non è cambiato molto: il Paiagallo continua ad essere lo stesso vino paradigmatico e Canonica resta un outsider della Docg più prestigiosa d’Italia, con una storia e un percorso tutti suoi. Un ettaro e mezzo di vigna appena fuori dal centro di Barolo (al quale è andato ad aggiungersi di recente
un piccolo vigneto di nebbiolo a Grinzane Cavour, ai margini della denominazione) e un agriturismo dal nome emblematico - il Quarto Stato - nella via centrale del borgo sono le coordinate del mondo di questo garagiste del Barolo, un uomo dalle idee salde allergico alle convenienze e alle ostentazioni. I suoi vini gli somigliano: sono privi di sovrastruttura perché fedeli a una concezione molto piemontese che vede quasi alla stregua di un dovere etico la ricerca della fruibilità. Da qui, la straordinaria bevibilitàe la piacevolezza precoce di un Barolo pur complesso e prodotto nel segno della tradizione; e la vitalità fresca di una Barbera d’Alba in controtendenza, tutta giocata sull’acidità e concepita per la tavola, come accompagnamento e come alimento. L’attitudine e l’approccio sono quelli naturali, anche se Gianni Canonica non ha mai voluto schierarsi nel plotone: interventi ridotti all’osso in cantina come tra i filari, parsimonia assoluta nel ricorso alla solforosa, inutile domandare di lieviti selezionati o controllo delle temperature. Così nascono questi vini essenziali e autentici, spogliati a priori del superfluo e capaci di sedurre per quel modo di andare direttamente al sodo nel segno di un’austerità incredibilmente generosa: ed è nella centralità dei margini che li caratterizza che Canonica riesce a rappresentare l’essenza profonda e vera del Piemonte del vino. Chi ha avuto modo di sentire le ultime quattro annate del Paiagallo (2005-2008, ormai impossibili da trovare in commercio) può capire di cosa stiamo parlando: un Barolo figlio di una visione personale che non rinnega storia né tantomeno vitigno e territorio, un vino davvero sovversivo perché capace di rimanere nobile scendendo dal piedistallo, di farsi beffe del proprio blasone con quella versatilità che gli consente di frequentare con la stessa disinvoltura una degustazione riservata agli esperti e la tovaglia
a quadri di un’osteria. La certificazione più inequivocabile arriva da un vignaiolo il cui nome significa qualcosa per i barolisti, Beppe Rinaldi: “Quello di Gianni è il Barolo che vorrei essere capace di fare”. Il resto è un personaggio che spiazza nella sua autenticità, è valore e idea: il primo è quello che lo spinge a mantenere prezzi abbordabili affinché “Bere Barolo sia possibile a tutti” e che lo porta a ricordare al pubblico di una degustazione in pieno timore riverenziale nei confronti del Paiagallo che quello che c’è nel calice “Non è mica acqua: è soltanto vino”; la seconda quella che costringe un importatore americano a scrivergli in piena primavera araba per chiedergli una fornitura, dopo anni di tentativi andati a vuoto a causa di un rifiuto motivato ideologicamente: “Gianni, è caduto anche Mubarak: adesso ce le puoi mandare, un po’ di bottiglie?”