Come accadde in molte delle cantine storiche che possiamo incontrare nel Monferrato, anche in quella di Maurizio Ferraro, vignaiolo classe 1973, è possibile vedere premi e ritagli del giornale del passato. Ma non sono tanto i premi a colpire: c’è una foto che ritrae il giovane Maurizio, enologo da poco, in giacca e cravatta, con il codino. Un ragazzo allineato, verrebbe da dire, uniformato. E mentre guardi la foto, lui è al tuo fianco che racconta la storia dell’azienda e ti chiedi se il ragazzo nella foto e il tuo cicerone siano la stessa persona. Vi è una contrapposizione molto forte tra passato e presente, una linea di discontinuità che colpisce fin da subito, quasi un voler prendere le distanze da un passato che non si condivide. L’azienda nasce nel 1819 ed è andata avanti attraverso quattro generazioni: una realtà che ha segnato la storia vitivinicola della zona. Come lo stesso Maurizio racconta, la produzione è sempre stata al passo con la tecnica, un esempio per molte altre aziende della zona. L’azienda si affermò e diede lustro all’intero territorio, all’interno di una filosofia produttiva convenzionale. Il punto di rottura è rappresentato da quel giovane enologo che si rese conto che il territorio era massacrato da un eccesso di interventismo sia in vigna sia in cantina. Maurizio nel corso degli anni ha maturato una consapevolezza e una ricerca del vino non convenzionale: è partito dalla vigna, ottenendo la certificazione biologica fin dal 2001, quindi in tempi non sospetti. I vigneti Ferraro sono tre e portano i nomi delle regioni su cui si trovano: il vigneto Arianna, il vigneto Chiovende e il vigneto Robbiano. La filosofia produttiva si basa sul rispetto per la biodiversità e per l’ecosistema. Purtroppo negli ultimi anni deve fronteggiare (come tanti altri vignaioli) quella malattia che lui paragona alla fillossera di inizio secolo, la flavescenza dorata, contro cui molti sforzi paiono vani e che provoca numerose fallanze in vigna. In cantina si privilegiano le fermentazioni spontanee e l’abbandono dell’uso dei solfiti aggiunti. In più, da circa 5 anni a questa parte, si è tralasciato l’imbottigliamento di vini monovitigno, preferendo gli uvaggi.
La ragione, come Ferraro racconta, è molto semplice: perché nel territorio, in passato, si è sempre fatto così e l’esempio è dato dai vecchi vigneti, in cui si può registrare la presenza di più tipologie. Il monovitigno è quindi una “forzatura” dei tempi contemporanei che tenderebbe a snaturare quella che è la storicità del territorio. Definire i vini di Maurizio “estremi” sarebbe ingiustamente semplificativo: sono vini di grande personalità, questo è in- dubbio, molto territoriali nel vero senso del termine, seppure molto distanti da molti vini convenzionali e uniformati. Tra i vini assaggiati meritano senza dubbio una menzione il Vino Bianco Bio, riconducibile alla vendemmia 2015 (50% chardonnay, 50% grignolino) che si palesa nel bicchiere con un colore vinacciolo che può spiazzare ma che poi mostra al naso un frutto surmaturo e un palato con buona freschezza e un ricordo tannico; il Vino Rosso Millesi- me 195 (90% barbera, 10% nebbiolo) è polposo al palato, con tannini vispi e profumi giocati sul frutto croccante; infine il Vino Rosso Bio F (80% ruché, 20% grignolino) mostra un naso con ricordi di pompelmo e viola, arricchito da una speziatura leggerissima e dotato di una bella beva e fitta trama tannica. Vini dall’ottimo rapporto qualità-prezzo, che fanno parlare il territorio con un linguaggio forse dimenticato. Vini e un vignaiolo che meritano una gita fuori porta, alla ricerca di bottiglie non omologate.