Se il nome di un vitigno - talvolta - può essere associato a quello di un singolo produttore, questo è per certo il caso di Elisabetta Foradori e del teroldego, testimoniato fin dal 1383, autoctono del Campo Rotaliano, piccola pianura alluvionale incastonata tra le Dolomiti. “Colpa” della sensibilità e della caparbietà di questa vignaiola che ha saputo e di alcuni vini che in pochi anni sono riusciti a imporsi all’attenzione di appassionati e addetti ai lavori, come il Granato e quel piccolo gioiello che risponde al nome di Sgarzon. Vini dalla grande personalità, talvolta irruenti ma mai del tutto risolti, quasi a voler trasmettere la ricerca inesausta della Foradori, il tormento perenne di coloro che si sforzano di farsi interpreti di un vitigno, di un territorio, di una serie di circostanze. In una ricerca del genere, la scelta naturale era inevitabile e necessaria. Scrive sul sito aziendale: “Foradori è, oggi, un’azienda in cammino. Dopo dieci anni d’uso dei preparati biodinamici in vigna e di attenzioni quotidiane in cantina iniziamo a percepire il valore del nostro lavoro”. E ancora, a sottolineare una “simbiosi” con la vigna: “Abbiamo imparato a metterci in ascolto per cogliere le sottili differenze esistenti in natura e a preservare la sincerità del carattere dell’uva nell’espressione del suo luogo d’origine”.